Quell’anno nevicò tanto tanto, così tanto che tutto il paesaggio mutò in un modo che nessuno, neanche i più anziani, sapeva ricordare. Era il lungo febbraio di neve del 1956 e io avevo ventun anni.

All’inizio fu solo gioia e meraviglia per i bambini e gli adulti che tornavano bambini, giocavano, costruivano slittini di fortuna con assi di legno di recupero e con questi, raggiunta la periferia del paese e i primi pendii delle colline, scivolavano allegri e senza pensieri.

Dopo poco iniziarono i disagi.

Le poche strade divennero impraticabili: i muratori non costruivano, i contadini non raccoglievano, i minatori non estraevano e gli allevatori stentavano a raggiungere il bestiame affamato. Tutte le attività quotidiane rallentarono, alcune vennero sospese; solo le forze dell’ordine ogni tanto, con i loro mezzi, riuscivano a trasportare persone e viveri.

In alcuni punti la neve superò i due metri e la società che gestiva la pulizia delle strade si vide costretta a rimpinguare le squadre di lavoranti ricorrendo al sostegno dei paesani che così poterono racimolare qualche soldo; tra questi io.

La mia squadra si muoveva da Orogheli a Sàrdilo, munita di piccone, a combattere con la neve che cadeva morbida di notte sopra lo strato di ghiaccio consolidatosi nei giorni.

Un giorno, nel silenzio ovattato, mentre ci concedevamo qualche minuto di riposo, sentimmo delle risate di donne che non riuscivamo a scorgere.  Incuriositi, io e mio cugino ci allontanammo dal gruppo per andare a scoprire da dove provenissero quei risolini e soprattutto a chi appartenessero. Così, guidati dal fragore, giungemmo, nascosti, fino a poca distanza.  Riconoscemmo Fiorella e Nina che, in prossimità di un muro di neve, avanzavano divertite verso questa tela soffice fino ad imprimerci le loro forme. Ci scoprirono nei nostri nascondigli e fuggirono via. Potemmo così avvicinarci e osservare meglio i calchi. Si scorgevano chiaramente le sagome impresse dei loro menti, dei palmi delle mani che scorrevano per tutta la lunghezza delle braccia, le ginocchia, le punte dei piedi, i seni. Ridemmo per questa loro sfrontata scultura di ghiaccio e corremmo a raccontarlo agli altri, che accorsero lesti in processione per rendere omaggio all’opera pagana.

Così passavano i giorni, tra la fatica e il divertimento in misura diversa, ma pur sempre in insolita alternanza. Riuscimmo a ripulire gran parte della strada così da consentire il transito dei carri e di qualche raro camion; ma ogni mattina, con moto perpetuo, la coltre di ghiaccio ci costringeva a ripartire daccapo.

Una mattina verso le dieci intravedemmo, tra le curve in lontananza, un camion del tipo 615 che avanzava lento e sbìrolo. Giunto a stento davanti a noi, potemmo apprendere che l’uomo, che aveva intrapreso questo viaggio così sdrucciolevole, era un fruttivendolo proveniente dalla zona della Soliàna, il cui clima più mite aveva risparmiato dai danni della neve ma reso impreparato a questa difficoltà quest’omino risoluto a fare affari nelle zone più interne, tra Badòi e Fonti, dove appunto ci disse essere diretto.

Decidemmo di aiutarlo ripulendo velocemente al meglio alcuni chilometri più impervi e poi, mentre lui era al volante, spingemmo il mezzo alternandoci. Eravamo circa in quindici, tra ragazzi e ammogliati, pieni di forza e tempra, a spingere il camion con le mani intirizzite, le guance venate di rosso e lo stomaco vuoto.

Ci fu un sobbalzo delle ruote e questo fece rotolare giù un’arancia che si impresse sferica davanti agli occhi dei miei compagni che avanzavano sul retro per poi darci il cambio. Un paio di essi avanzò e spostò il tendone facendo intravvedere delle casse contenenti carciofi, arance e mandarini, per noi frutti rarissimi a quel tempo in cui in paese non esisteva neanche un albero di agrumi. Accadde così che l’alternanza nel sostituirsi reciprocamente nei turni di spinta venne integrata con un movimento lento di sottrazione, ora di un mandarino ora di un’arancia che, adagiata sulla neve, sprofondava nascondendo il corpo del reato agli occhi dell’ignara vittima. Accompagnato l’avventore fino a metterlo in salvo, tra saluti e ringraziamenti, ripercorremmo la strada a ritroso recuperando dalle cavità sferiche nella neve quei frutti deliziosi che mai avremmo potuto permetterci con i pochi soldi guadagnati con il faticoso lavoro. Ricordo che ognuno di noi riuscì a racimolare un paio di chili di felicità da portare in famiglia che, a raccontarlo ora, non si riesce a crederlo. Mia madre mi chiese da dove provenissero e io le risposi che erano una ricompensa, senza approfondire i dettagli che avrebbero provocato il disappunto dei miei genitori, poveri ma intransigenti rispetto ai canoni di onestà da non infrangere mai.

Ci sorrido ancora. Non ho mai dimenticato il profumo di quegli agrumi sulla neve.

“CHI RUBA, SPESSO SI PREPARA;

CHI INVECE LAVORA, HA SPESSO LA SORTE IGNARA”